
Ne siamo consumatori, osservatori, destinatari, più o meno consapevoli delle cause che le sottendono e degli effetti politici e sociali che comportano.
Le fotografie di protesta rappresentano il corpus di immagini attraverso cui facciamo conoscenza dei cambiamenti della società, che più o meno nello stesso istante in cui accadono, ci vengono mostrati, almeno nella loro veste sensibile, di documentazione del reale. Dalle rivolte della primavera araba, alle proteste giovanili di Hong Kong, ai violentissimi scontri che in queste ore si stanno consumando nelle strade e nelle università di Teheran, la fotografia di protesta è un canale di comunicazione sul potere e la ribellione ad esso, strumento di controllo e di rivendicazione.


Ma abbiamo sempre protestato allo stesso modo? Com’è cambiata l’estetica della protesta negli ultimi anni?
Una risposta a questa domanda ci arriva da Zurigo, per la precisione dall’Università delle Arti di Zurigo e del Museum für Gestaltung che, riunendo un gruppo di designer e ricercatori, nel 2018 ha pubblicato “Protest. The aesthetics of resistance”, un libro che ruota intorno a potere e dissenso per analizzare l’estetica delle forme di resistenza al potere, a partire da alcun dei più interessanti esempi di grafica, copywriting e fotografia di protesta del XX e del XXI secolo. Un repertorio di immagini e di saggi critici che analizza la simbologia della protesta, fino a creare una sorta di analisi di archetipi analizzati in tre macro-sezioni: una dedicata alle immagini e ai simboli, una alle parole e una all’uso del corpo e dello spazio.

Nella produzione di immagini fotografiche casuali, dovute, spontanee, costruite, le pubblicazioni dedicate alle immagini di protesta occupano un ruolo importante, definendo le tappe salienti, gli autori, le vicende storiche e le tendenze che hanno contribuito a definire la nascita di un genere. Un esperto nel settore è Luciano Zuccaccia, fotografo e collezionista di libri fotografici, fondatore e animatore di Protest in Photobook, una piattaforma totalmente gratuita dedicata alla protesta attraverso i libri fotografici che fanno parte della collezione privata di Zuccaccia, con recensioni e interviste a fotografi, curatori ed editori. Un universo dell’immagine fotografica a servizio delle proteste civili, una collezione suddivisa per nazioni e tema, composta da più di 100 libri che vanno dagli anni ’30 ai giorni nostri.



Tra i libri dell’archivio Protest in Photobook, compare un libro simbolo della fotografia di protesta: Days of blood, days of fire di Bahaman Jalali, Rana Javadi, Hadi Haraji, Mahmoud Mohammadi, Behrouz Shahidi, autori di un reportage durato 64 giorni, dall’inizio delle grandi manifestazioni anti-Shah a Teheran il 10 dicembre 1978, fino al ritiro dei militari iraniani l’11 febbraio 1979, dopo il ritorno in terra persiana di Khomeini.
All’epoca degli scontri, Bahaman, aiutato anche da sua moglie Rana Javadi - che lo aiutava coprendo per lui manifestazioni che non riusciva a fotografare –scese nelle piazze per ritrarre le donne senza velo che in quei mesi manifestavano contro lo Shah. Quelle stesse donne che la fotografa iraniana, Hengameh Golestan, avrebbe fotografato, per l’ultima volta senza velo, il 7 marzo del 1979, giorno della legge del nascente governo Khomeini che imponeva alle donne il velo fuori di casa, raccogliendole in un altro libro di straordinario valore storico e successo editoriale: Enghelab Street, The Revolution by Books, Iran 1979-1983.




Quarant’anni dopo, si urla “Donne. Vita. Libertà” nelle strade di Teheran.
Si continua a fotografare e a resistere, a morire e ad essere arrestati, come è accaduto alla fotoreporter Yalda Moaiery, una dei 20 fotoreporter arrestati mentre svolgevano il proprio lavoro, durante le manifestazioni per la morte di Mahsa Amini. Yalda, che durante le dimostrazioni di fine 2017 scattò all’Università di Teheran una foto divenuta iconica, denunciò l’uso indebito che della foto fu fatto dall’ex presidente Usa Donald Trump in una campagna contro la Repubblica Islamica.



Nella foto, una ragazza alza il pugno chiuso riparandosi con il velo dal fumo. Il gesto del pugno chiuso sollevato ben in alto - presente in ogni manifestazione o atto di protesta - da simbolo di ribellione viene tramutato in strumento di potere, esempio concreto di come, nell’era della comunicazione digitale, in una battaglia che si gioca anche nel campo delle ideologie e della comunicazione, una foto può diventare strumento di manipolazione narrativa, da un lato, e simbolo visivo di resistenza, dall’altro.
